mercoledì 11 novembre 2009

Immigrati in erba

Una ragazza al bancone fa la sua ordinazione, con un inglese pieno di eeeeh... aaaah... ooooh... come solo quello di noi italiani e la commessa risponde qualcosa. Lei quindi si volta verso i suoi genitori e si mette a tradurre tutto, difatti, in italiano. Io sono lì di fianco e faccio la mia ordinazione all'altro commesso, anche la mia tutta piena dei nostri tipici eeeeh... aaaah... ooooh... e lui mi risponde con un accento non propriamente inglese, sebbene con molti meno eeeeh... aaaah... ooooh... Cerco il nome sulla sua divisa: Gianpaolo. In quel metro quadrato cinque persone su sei erano italiane ma tutti ci sforzavamo di parlare inglese ("eeeeh... aaaah... ooooh"), ma Gianpaolo, nel bel mezzo della traduzione della ragazza nell'altra fila, rompe l'incantesimo e incomincia a tradurre in italiano per lei. Un pensiero gentile, si direbbe, solo che noi novelli immigrati abbiamo tutti, chi più chi meno, chi con maggior autocontrollo e chi con molto meno, la sensazione di essere qui per purificare la nostra italianità e per sfuggire ad un provincialismo "pizza e mandolino". A lavare i panni in Tamigi, insomma. Per questo, la ragazza non degna Gianpaolo di più di uno sguardo, un po' offesa perchè è stata in qualche modo riportata a forza nella provincia di pizza e mandolino che le è destinata.
Io gli dico "ma siamo tutti italiani qui!" Lui mi risponde che si, siamo in tanti, ma che vent'anni fa, quando lui è arrivato a Londra, era più facile riconoscersi tra italiani. "Bastava una camicia stirata e capivi al volo che erano italiani". Non so se intendesse dire che gli inglesi hanno imparato a stirarsi le camicie o che dovrei farlo io.